Sister distribution

Promuovere la diversità

Carmen Jaquier, Kelly Reichardt, Ryûsuke Hamaguchi, Hong Sang-soo, Albert Serra, e tanti altri.

Intorno al 1820, Cookie Figowitz, un esperto cuoco solitario e taciturno, viaggia verso Ovest e alla fine si unisce a un gruppo di cacciatori nel profondo dell’Oregon. Lì, fa amicizia con King-Lu, un immigrato di origine cinese, che pure sta cercando di fare fortuna. Uniranno rapidamente le forze per creare una piccola attività di successo, utilizzando una mucca da latte, molto apprezzata da un ricco proprietario locale, per fare torte.

Chi segue la parabola del cinema indipendente americano sa che l’autrice di First Cow, Kelly Reichardt, è un punto di riferimento inevitabile per una serie sconfinata di autori più recenti. Dopotutto, nel corso di una carriera venticinquennale (sette lungometraggi, inclusi due autentici capolavori come Old Joy e Meek’s Cutoff), la regista di Miami ha costruito un suo personalissimo linguaggio cinematografico, una sorta di Neorealismo che attinge tanto da Roberto Rossellini quanto da Mike Flanagan (n.d.r. regista ancora poco noto alle nostre latitudini), con l’obiettivo di indagare le dinamiche sociali e culturali dell’America contemporanea, senza rincorrere opere di “denuncia sociale”. da Daniele Lombardi, www.anonimacinefili it.

«Foudre», un film qui claque dans le cinéma suisse

À l’unanimité, le jury a choisi un film porté par un incroyable souffle de liberté. Son niveau de maitrise et de maturité nous a étonné et très vite conquis dès les premiers plans. De part sa mise en scène épurée, sa direction d’acteur inspirée, nuancée, juste, sensible, cette première fiction nous a épaté et émue. Son sens du cadrage et ses paysages incarnés, au service de la narration, nous transportent dans un autre temps. Ce film est un témoignage du passé, mais qui fait écho avec une thématique actuelle, par son évocation courageuse de l’émancipation d’une jeune femme au début du 20e siècle. Nous avons voulu saluer la naissance d’une nouvelle réalisatrice qui cultive merveilleusement le sens du mystère et se pose en porteuse d’espoir pour les générations futures. Notre jury est fier de décerner le Prix Opera Prima des Journées de Soleure à Carmen Jaquier.

Comme il dure seulement une heure, on aurait vite fait de croire que I Am Truly A Drop Of Sun On Earth est un film mince, maigre, pour ne pas dire petit. Bon, c’est tout l’inverse : cette heure là raconte assez d’existences pour qu’on ait envie de crier à la lune que c’est un grand film. Du genre farouche, qui plus est : qui ne s’en laisse pas conter. Tout ce qu’elle réussit, la cinéaste Elene Naveriani le fait contre les idées toutes faites, les automatismes, les trucs que l’on pense avant même de les réfléchir. Par exemple, on pourrait vous dire, pour aller vite, que I Am Truly…. est un premier film de femme, une fiction, sur la prostitution, en Géorgie. Mais à peine avez-vous dit cela, qui est vrai, que le film vous met en porte-à-faux : est-ce tant que ça une fiction, ce film ? Au générique de fin, on apprend stupéfaits que deux des acteurs du film, une des filles de la boite et surtout le personnage principal, ne sont aujourd’hui plus de ce monde, tous deux morts après le tournage, entre 2015 et 2016. Lui 28 ans, elle a 22. Le film est dédié à leur mémoire. Ce film, cette fiction, a donc bel et bien lieu dans la rue, là où rien jamais ne vous est pardonné. C’est une histoire (d’amour) dans un endroit qui ne connait que la survie.

Orso d’argento per la miglior sceneggiatura Berlino 2021

A Seoul, il giovane Youngho fa visita allo studio del padre, un dottore agopunturista con cui non ha grandi rapporti. Il padre però è impegnato con la visita inattesa di un famoso attore, lo stesso attore che in seguito accetterà di incontrare il ragazzo per fare un favore alla madre di Youngho, preoccupata che suo figlio abbia messo da parte il sogno di diventare attore anch’egli. Nel frattempo, la ragazza di Youngho si è trasferita in Germania per gli studi universitari, approfittando dell’ospitalità di una pittrice amica di sua madre. Con una decisione impulsiva, Youngho la raggiunge a Berlino per discutere la possibilità di trasferirsi per starle vicino.

Il cinema di Hong Sang-soo, a mano a mano che si semplifica, si scarnifica, si riduce all’osso, assomiglia sempre più alla vita, seppur nel velo da fantasma del bianco e nero delle immagini. È ripetizione e minima differenza, è noia e gioia, è malinconia e presenza, luce che si mescola all’ombra, grigio tra il bianco e nero, difetto e perfezione, mancanza e riempimento, vuoto e pieno. È un’eco truffautiana di corse sulla riva e lucidità da ritrovare nell’acqua gelida. Fuori e dentro la parte: “gli occhi, aprili sotto l’acqua, lavali/ con la ruvida tela asciugati e leggi/ sul foglio al muro le righe difficili della tua parte”… È sempre più la leggera follia di un pomeriggio passato a bere, tra amici, senza un obiettivo preciso, se non ritrovare un senso nella perdita di tempo, oltre i fumi dell’alcool. E questo piccolo film che è un’introduzione alla vita, una minuscola parabola di formazione, alla fine, è essenziale come tutte le cose vere. Bevete quanto vi pare, ma non vi ubriacate. Non del tutto.

da Aldo Spiniello, www.sentieriselvaggi.it

  • « Drive My Car vibre intensément de tout ce qui affleure. »
  • Mathieu Loewer - Le Courrier
  • « Le charme de la narration est indissociable de l’acuité d’un regard porté sur le monde pour en suggérer la complexité – non pas dissimulée, mais bien exhibée par les apparences. Tout est affaire de mise en scène. Que dire de plus ? »
  • Émilien Gür - Filmexplorer
  • « Asako est un très grand, très juste film sur ce que c’est que d’être aimé, et d’aimer en retour - une déconstruction de tous les instants. »
  • Olivier Lamm - Libération

« Jadis un peu poseur lorsqu’il se disait grand réinventeur du cinéma, l’Espagnol Albert Serra a véritablement fait sensation, à Cannes au printemps puis dans les salles cet hiver, avec un film-déambulation qui va au-delà de la narration pour suivre à Tahiti les errances d’un haut-commissaire de la République française (sidérant Benoît Magimel) confronté au spectre d’une possible réactivation des essais nucléaires. Réalisé à l’aide de trois caméras poussant les acteurs et actrices à lâcher prise lors de longues séquences tournées dans la durée, Pacifiction est un film organique et hypnotique prouvant que de nouvelles formes cinématographiques peuvent encore être inventées. » Stéphane Gobbo, Le Temps

« Toutes les premières émotions de la vie d’adulte (amour fou, deuil violent, première étape de l’accomplissement professionnel, prémices de la gloire, etc.) sont exprimées sur un mode paroxystique, déchaîné, aussi sensuel et puissant qu’un spectacle de Chéreau. Le film est un jet, une lance, une flamme. Il jaillit et renverse. Et sa beauté ravageuse tient aussi à la façon dont il catalyse l’éclat juvénile de sa troupe de jeunes comédien·nes. D’ores et déjà pour nous un des sommets du festival. » Jean-Marc Lalanne, Les Inrocks (Cannes)

Premio SACD (Director’s Fortnight) al Festival di Cannes 2021 Premio miglior opera prima ai César 2022. «Here are the young men, the weight on their shoulders. Here are the young men, well where have they been?». La magnetica voce di Ian Curtis, frontman del gruppo britannico Joy Division, morto suicida nel maggio del 1980, è l’urlo di dolore che spazza via ogni speranza di futuro. Un anno dopo, nel maggio 1981, François Mitterrand vince la sua prima elezione per la presidenza della repubblica francese, ed ecco che il mondo sembra davvero poter finire da un momento all’altro. Una cittadina di provincia agli inizi degli Anni 80. Philippe vive nell’ombra del fratello Jérôme, leader della banda. Fra radio pirata, il garage del padre e la minaccia del servizio militare, ignorano che stanno vivendo gli ultimi momenti di un mondo che sta per sparire.

Presentato all’ultima Quinzaine des Réalisateurs e vincitore come miglior opera prima ai César, Les Magnétiques è l’opera prima di Vincent Maël Cardona. Un coming-of-age ipnotico e romantico, caratterizzato da una colonna sonora trascinante. Il timido protagonista, interpretato da un inesperto e ciononostante intenso Thimotée Robart, è un personaggio riuscitissimo che certamente si farà ricordare. Così la scena delle pulizie in caserma. Una decade tragica, segnata subito da un lutto diventato simbolo di una disperazione generazionale, che per alcuni sarà senza rimedio. Gli altri potranno fare affidamento a pochi strumenti di comprensione del mondo, fra i quali spicca la musica new wave. La radio come liberazione, via di fuga, valvola di sfogo. Le feste intorno al fuoco nella campagna più buia come consolazione rituale, al tempo debolezza congenita e forza motrice del sogno. Thimothée Robart ci accompagna in un viaggio tra canzoni come “Touche pas à mon sexe” e “Tombeau de mademoiselle”, prima che i Joy Division e gli Undertones dettino il tono. La musica è onnipresente per esorcizzare l’assenza, per mantenere un legame con i propri cari. da Alessandro amato, www.sentieriselvaggi.it

Miglior film Festival diritti umani 2020 Miglior film Festival del documentario Kassel 2020 Prix Gilda Vieira de Mello, FIFDH 2020

Città del Messico, marzo 2015, Carmen Aristegui, giornalista incorruttibile, a seguito della sua indagine sul caso “Casa Blanca”, viene licenziata sui due piedi dalla radio MVS, per cui lavorava da anni. Questo caso ha rivelato il conflitto di interessi tra l’allora presidente messicano Enrique Peña Nieto e un appaltatore statale: in cambio di una casa di lusso questo imprenditore si sarebbe aggiudicato un enorme contratto ferroviario dal governo. Sostenuta da oltre 18 milioni di ascoltatori, Carmen continua la sua lotta. Il suo obiettivo: risvegliare le coscienze e lottare contro la disinformazione. Questo film racconta la storia di questa ricerca difficile e pericolosa ma essenziale per la salute della democrazia. Una storia dove la resistenza diventa una forma di sopravvivenza.

Senza mai mostrare veramente (o solo brevemente) l’orrore, Juliana Fanjul lo suggerisce (il che è decisamente più forte), ci fa immaginare il peggio senza privare però mai la sua protagonista di quella gentilezza e senso dello humor che la rendono unica. La voce fuori campo della regista, le cui parole, spietate ma terribilmente reali, sono scelte con particolare cura, danno al film un sapore agrodolce, tanto poetico quanto spigoloso. “Siamo tutti Carmen”, scandisce la folla che protesta contro il suo licenziamento, come a ricordarci che in ognuno di noi si nasconde il coraggio di ribellarsi ad un discorso ufficiale bulimico e soporifico. Silencio radio arricchisce un discorso sul Messico che la regista tende a complicare ad ogni film. Come un caleidoscopio puntato su un mondo complesso e in costante mutazione che necessita visceralmente di voci e di immagini vere e coraggiose. da Giorgia Del Don, www.cineuropa.org

Miglior regia Festival Salonicco 2019 Dopo la morte di sua madre, un giovane soldato insediato nel deserto tunisino, ottiene un permesso di una settimana. Non tornerà mai più e abbandonerà l’esercito. In fuga, viene inseguito dalla polizia in un quartiere popolare. Anni dopo, una giovane donna incinta sposata con un ricco uomo d’affari vive in una lussuosa villa nel mezzo di una foresta. Un giorno incontra per caso un uomo dall’aspetto strano. È l’ex soldato. Questo incontro segna l’inizio di una serie di eventi misteriosi, che coinvolgono l’ex soldato, la donna incinta e il futuro bambino.

Inizialmente il film assume la forma di un thriller psicologico nel quale si vede la camera seguire incessantemente (o quasi) il protagonista e coglierne la lenta ma inesorabile trasformazione. La composizione del quadro riflette la narrazione e gli elementi architettonici sembrano intrappolarne i movimenti. D’altra parte le ottime riprese con il drone restituiscono ariosità e respiro fino all’implacabile e interminabile piano sequenza che chiude la prima parte. Nella seconda il quadro cambia: la macchina da presa indugia, l’ambientazione si sposta nella natura abbandonando la città. L’incontro tra i due personaggi apre alla comunicazione e allo scambio per quanto particolari. Il finale enigmatico riscrive e scardina in qualche modo i concetti socialmente acquisiti di gender, famiglia e maternità. da www.locchiodelcineasta.com

Una ragazza, un ragazzo. Vivono nello stesso edificio. Lei ama la musica, lui pure (ma non la stessa). Si incontrano in ascensore. Si odiano, si incrociano di continuo. E soprattutto: lei è cieca, lui ci vede perfettamente. Un giorno, provocatoriamente, le fa credere di essere anch’egli cieco. Quello che era uno scherzo di cattivo gusto si protrae, arriva l’amore, la situazione si complica e l’inganno diventerà esplosivo.

L’idea nasce da una capacità di osservazione della vita quotidiana, trasformata in storia, ponendo grande attenzione al dettaglio. “Vedevo ogni giorno una scena commovente nel mio quartiere: una madre cieca che accompagnava la bambina a scuola. Ho pensato che sarebbe stato interessante non oltrepassare la linea del politicamente corretto su una disabilità come la cecità, ma anche di cercare dei momenti ilari. E così è nata questa storia d’amore in ascensore. Mi è sempre piaciuto il cinema classico americano, come quello di Ernst Lubitsch, in cui l’eleganza si mescolava al tragico e al comico.” da un’intervista con Axelle Ropert

A Bright Light - Karen and The Process della regista svizzera Emmanuelle Antille, è un ritratto misterioso e toccante di una delle artiste più emblematiche (e segrete) della storia della musica. La regista percorre le tracce di Karen Dalton, accarezza con il suo sguardo acuto i luoghi che l’hanno accolta, ne assapora le atmosfere e ne restituisce l’aura grazie alle testimonianze delle persone che le sono state vicine.

Il film non vuole ricostruire cronologicamente la storia di una musicista dal destino tragico, eccezionale, fortemente libera, che ha rifiutato il sistema e i suoi compromessi, una delle voci più sorprendenti degli anni ’60, adorata dai suoi fans, sconosciuta al grande pubblico. Attraverso questa figura emblematica, il film per contro segue la ricerca di libertà e di espressione, un’indipendenza nel bene e nel male. Dal Colorado a Woodstock, da New Orleans a New York, tre donne viaggiano attraverso il paese alla ricerca di questa musa. Emmanuelle Antille utilizza le immagini come fossero delle tracce fugaci di un passato incerto: le deforma, trasforma e interroga, nella speranza di estrapolarne l’essenza. Karen Dalton ha vissuto in equilibrio costante tra realtà e oblio, fra palcoscenico e semi eremo, alla ricerca di un’impossibile pace interiore. Il film di Antille si nutre di quest’ambiguità e la sublima attraverso il gesto filmico.

da Muriel Del Don, www.cineuropa.org